Voglio guardarti ancora amore mio
prima che venga il grigio della sera
a sfrangiare i contorni dei ricordi.
Lieve la brezza tiepida del vespro
dolce accarezza il grigio dei capelli
(oro di grano di lontane estati)
e una melodia di colori accende
la ferita bellezza del tuo volto.
I segni sulla pelle fanno male
ma le rughe non sono tutte uguali.
Nascono sempre come una canzone
son figlie di una lacrima o un sorriso.
Ogni ruga racconta della vita
storia infinita scritta sul tuo viso.
Il tempo ha lavorato di bulino
come il ragno paziente sulla tela.
T’ha cesellato piano sulla fronte
un pentagramma fine di armonie.
Sopra il solco amaro di una lacrima
ha steso un velo di dimenticanza.
Poesie di trine infine ha ricamato
sulle pieghe graziose di lietezza.
Le rughe sai non sono tutte uguali
(ho imparato a conoscerle oramai)
e ognuna mi rivela il suo segreto
come luce che viene da una crepa:
il senso della sera è respirare
l’ostinata bellezza del tramonto.
E sono ancora verdi gli occhi tuoi
al fulgore di Vespero che sale.
2ª Classificata Consoli Carmelo - Firenze Toscana
La storia del tempo e della luna
Ancora cala un vento carico di campi
e di maree nelle notti lunate dei vitigni;
mi coglie nel sogno di falò, stoppie arse,
di occhi persi in una danza di guizzi e scintille.
Ancora mi resta cucito sulla pelle,
dolce come allora, l'odore del fico, della zagara,
il gesto antico di mio padre chino sulle zolle
a disegnare forme, a fecondare campi,
sussurrare nenie d'amore alle tenere foglie,
ai grappoli assetati di sole.
Nelle notti di vendemmie balli, grida
e fiondare di comete, il sapore aspro dolce
del vino tra il rosa viola dei tramonti.
Di quel tempo dei vitigni salmastri
mi è rimasta dentro una bianca trama di sentieri,
la danza dell'ape estasiata di nettare
tra gli acini rigonfi; impresse sulla carne
come stimmate orme lievi di fanciulli
nell'ora dorata dei limoni.
E mentre maturava l'uva alla controra
nei silenzi delle piane, nel ronzio radente
di verdi calabroni m'incantava la storia
del tempo e della luna urlata al cielo dai vecchi
seduti sulle botti: “Luna calante,
che sia luna calante quando si vendemmia,
male segno nebbia e pioggia".
Di quel tempo rivedo i rossi filari
che a sera s'accendevano di lucciole,
il gelsomino, la farfalla maculata, il selvaggio
dei tornati, l'azzurro di quell'infanzia,
sangue vivo che ancora mi scorre nelle vene
mescolato a una terra fumida di sogni
3ª Classificata Monari Tiziana - Prato Toscana
Il canto inaspettato dell'allodola (dedicata)
Ed ora che l’anta a specchio riluce nell’assenza
e la vestaglia rossa resterà lì
abbandonata nell’ombra della stanza
come l’orchidea appassita da un malevolo sortilegio
lo sento assieme a quella parola “Positivo”
il canto inaspettato dell’allodola
le nuvole che scivolano nel liso nodo della vita che si slega
e per un attimo mi muovo incerta
nell’illusione chiara della spinta
in questo bianco e nero che colora giorni senza meta
la contrada spoglia di schiamazzi
il silenzio che corteggia l’aria di traverso
nel sole la placida calma della piana
e mentre l’ambulanza risale ad onde la statale
in un fuoco di lucciole vaganti
mi tuffo nell’azzurro di un cielo inoffensivo
rubando un brivido d’amore al girasole
in quell’alba tiepida che è culla della notte
e volo con un bacio trafugato nella sciarpa
sul rovescio opaco dell’asfalto
insieme ad un gabbiano che plana lento ad un refolo di vento
nell’eternità sfuggente dell’istante.
E ancora vago e mi perdo nell’onda che si inclina
tramutandomi in stella capovolta
l’azzurro che trasuda fuggendo dal mio corpo
e per un attimo “M’illumino d’immenso”
nell’avulso vuoto che preme nella mente
in quel niente in cui affido fragile
l’eterno stupore dell’ultimo mattino.
SEZIONE B A TEMA “La Rinascita”... È l’alba di un nuovo mattino, la luce oltre le tenebre del dolore... Forza interiore dello Spirito a superare le barriere dell’esistenza umana..
1ª Classificata Di Ruocco Vittorio - Pontecaiano Faiano Campania
E ti ritroverò lungo il cammino
Quando i tuoi occhi ormai sazi di vita
avranno oltrepassato le colline
che segnano lo scorrere del tempo
io non potrò più porgerti il sorriso
ed alleviare il peso dei tuoi anni.
E non potrò più prenderti la mano
ansiosa come quella di un bambino,
stringerti per carpire il tuo tepore
serbarlo per gli inverni che verranno.
Quando il tuo volto timido e scarnito
affisso ad una lapide impietosa
non muterà più al crepitio degli anni
ti avranno già travolto le stagioni
che meste seguiranno al tuo trapasso.
Ed io meschino perso nel futuro
ti cercherò tra i cumuli di pietre
che in qualche luogo ti seppelliranno
tra i nitidi ricordi trattenuti
nei loculi riposti della mente.
Mi lascerò confondere dal vento
silente che si insinua tra le foglie
portandomi un sussurro familiare
come la voce tua tremula e fiera.
E tu sarai il signore dei miei passi
l’arduo custode della mia memoria
la luna silenziosa che s’accende
nell’aura tenebrosa della notte.
E ti ritroverò lungo il cammino
che ci conduce alla radice eterna
di questa vita pregna di mistero,
tu ancora padre ed io di nuovo figlio.
2ª Classificata Ragazzi Roberto - Trecenta Veneto
DI LA' DA OGNI ALTROVE
Non aspettarmi, vado, di là da ogni altrove, lontano.
Dove spira il vento tra le dune e le tende dei beduini,
dove implora pioggia la terra increspata ed arsa,
dove rughe di pianto e lacrime secche
dipingono i volti delle donne in fiore.
Non aspettarmi, vado.
Dove terra e mare s’incontrano
per schiaffeggiarsi in dolorose tempeste,
dove rovine e sudari di lacrime si offrono al canto
di disperati volti su confini e reticolati,
dove un sorriso vale più dei tesori
che un mondo cieco può regalare.
Non aspettarmi, vado, di là da ogni altrove, lontano.
Sui versi dei poeti maledetti
tempio di vili e accorati scempi,
di parole scritte senza seguirne il senso,
bellezza al vento senza respiro e vanto.
Vado, dove le lacrime di un bimbo
bagnano la terra, dove polvere e sole
non danno meraviglia ma solo fame,
miseria ed incuria.
Sarò distante, lontano sempre,
ruberò al silenzio ogni malinconia
e pregherò la sera di dare conforto
a ogni cuore che ne abbia un senso.
Non aspettarmi, vado, la notte è chiara,
le stelle dipingono la volta scura
e ogni luce che pulsa è un cuore che batte
dei tanti destini in bilico tra sconforto e paura.
Non aspettarmi, vado!
E se oltre ogni altrove non avrò colore
sarà di grigio fumo il mio vedere,
sarà di fiele amaro il mio gustare,
finchè l’amore non ci verrà a salvare.
3ª Classificata Arecchi Alberto - Pavia Lombardia
RITORNO A TIMBUCTÚ
Terra rossa d’Africa nel vento,
sopra il mare, le steppe e i deserti.
I bambini delle bande,
armati di mitragliatrici,
prendevano d’assalto le vie della città.
Vento di sabbia, rossa come sangue,
accecava e soffocava il respiro.
Il cielo della notte senza stelle,
aspro odore regnava nelle case.
- Stanno arrivando! - Un urlo spaventoso.
Uomini feroci con bandiere nere
venivano a prendere le nostre vite.
Torneremo alla città leggendaria.
Il corso del gran fiume ci guiderà
tra le barche che scivolano lievi.
Il cormorano mostrerà la direzione.
I manghi ci offriranno ristoro.
All’orizzonte il miraggio
delle cupole dorate di Timbuctú.
Ravviveremo le fonti
che elargivano latte e miele
e pianteremo fiori colorati
sulle bianche tombe.
All’orizzonte, il sole d’un nuovo giorno
squarcia la tenebra che ci circonda.
SEZIONE C IN VERNACOLO
1ª Classificata Pedrazzini Alberto - Luzzara E. Romagna Vernacolo Emiliano della bassa reggiana ( Guastalla, Luzzara) con inflessioni lombarde
Paròl in pian
Argnai ‘d rundanìni, méss in fila, da mèS a na campàgna urdinàda.
Artài ‘d vérd e ‘d marrón, pö cèr, pò scür
travsà da na béssa blö, tötta curvi cmé i fiànc ad na dónna.
Da ‘d suravia la pianura l’è na manéra d’esar; na cusdüra ‘d pèsi difarénti,
sgnàda in sl’onda mötta di camp, an còdul ‘dré cl’àtar.
As pól dà che la mé sòrt, cmé cólla ‘d mé padar, ‘d mé nònu,
la föss d’armàgnar ché, inciuldà tra ‘n punt e n’àtar ad Pò,
sarà déntar na campagna piàta eh’la föss par mé
‘n po’ cà, umbréla ó gabàn pròpia cmé ‘1 göss adla lümaga
ó la scòrsa dura ‘d na lingöria ch’la prutèg al so garöl duls.
La stranéssa l’è ch’la sia ché e mia in n’àtar sit.
Ché, indua tött al sa smòrSa, indua l’alt as confónd cun al bàs,
al grandiùs cun al sémpi e cóll cl’è famus cun al sénsa nómm.
Ché, indua tött i dé la tö vétta l’è n’immis’ciàras in cólla ‘d chiàtar,
gnan na muntagna ch’la t faga da sipàri, l’at daga prutesiòn.
Sul i àrSan ad Pò o la fümana ch’la t’intabàra e la ta strécca i òs.
Ché, indua ‘nca ‘1 pö ömmil di prâ, di gröpp ad ca,
al pö pòvar di òrt ò di uratòri ‘d campagna
al va ‘d gàra, in dla sö bélessa smunta, sutìla
cun i giardén ben cürà, i palâs ristucratich, li cési ‘d cità,
e l’è n’intrésadüra ‘d manéri difarénti che ‘1 Pò ‘1 ricunóss e l’ünéss.
L’önich mutiv l’è parchè a g sun nà, An a g n’è mia di àtri raSòn.
A la fén adla féra li ròbi ch’li cunta j è sul cólli
ch’li ta sempar tgnü cumpagnìa, sin da pütlét.
A t’armagn la memòria ‘d tanti àn cücià vön dentr’a cl’àtar, schégi
ch’li s’infìlsa in dli pighi pö lugàdi e li ‘t caréssa l’anima
cm’a fà ‘1 vént quand a t pòrta drét dentar in dli büghi dal nãS
‘1 pruföm a dla prömavéra ò ‘dl’avtónn;
ricòrd d’an arcurdà ch’a sa di òrt é stèli,
‘d tavlòsi ad culur, ad gaSaböi d’alégrìa é ‘d dulùr;
di òc chi ‘t salöta pr’an gran viàS Ó par sémpar.
I turnarà a nàsar, anca sul in dal tö cör,
cmé li paróli ch’li ‘s vèrSa, na sillaba ‘dré cl’àtra, e li fiuréss.
Agh’evum pròpia bisògn ad firmàras, nâS è bócca cuacià,
e riflètar ‘n brìS, a la distansa d’an mètar, ch’la par éterna.
Parole in piano
Nidi di rondine allineati nella campagna ordinata.
Ritagli di verde e di marrone, più chiari, più scuri,
solcati da una biscia blu, tutta curve come i fianchi di una donna.
Dall’alto la pianura è uno stato mentale; una cucitura di differenti toppe
disegnate sull’onda immobile dei campi, zolla dopo zolla.
Forse il mio destino, così già per mio padre e mio nonno,
era di rimanere qui, fra un ponte e l’altro del Po,
rinchiuso dentro una campagna piatta che mi fosse, a un tempo,
casa, ombrello o cappotto, proprio come il guscio della lumaca
o la scorza dura dell’anguria che protegge la sua polpa dolce.
La stranezza è che sia qui e non altrove.
Qui, dove tutto si smorza, dove l’alto equivale al basso,
dove il grandioso si confonde al dimesso e la celebrità al senza nome.
Qui dove ti senti gettato nella mischia del quotidiano
senza un’asperità che ti nasconda, ti protegga.
Solo gli argini del Po o la nebbia che ti avvolge, stringendoti.
Qui, dove anche il più umile dei campi, dei caseggiati,
il più povero degli orti o degli oratori sparsi
gareggia, nella sua bellezza dimessa, sottile,
con i giardini ben curati, i palazzi nobiliari, le chiese di città,
in un intrecciarsi di differenze che il Po riconosce e unisce.
L’unica ragione è perché ci sono nato. Non ne vedo altre.
Alla fine, le cose che contano sono quelle
che ti hanno sempre tenuto compagnia, sin da bambino.
Il resto è la memoria di decenni raddensati in schegge
che si infilano nelle pieghe più nascoste e accarezzano l’anima
come fa il vento quando porta nelle narici
il profumo della primavera o dell’autunno;
immagine di un ricordare che sa di orti e di stelle,
di composizioni di colori, di costellazioni di gioie, dolori;
di occhi che ti salutano per un lungo viaggio o per sempre.
Ritorneranno però a nascere, anche solo dentro al tuo cuore,
come le parole che sbocciano, sillaba dopo sillaba, e fioriscono.
Avevamo davvero bisogno di fermarci, con naso e bocca coperti,
e riflettere alla distanza infinita del metro.
2ª Classificata Panetta Alfredo - Settimo Milanese Lombardia Vernacolo calabrese zona Locride
CARU PROF (A.F. Panzera*)
Esti com’un pruppu pistatu
sup’è scogghjia stu rèfulu
njelatu chi schjiaffija l'ossa.
Nesci ‘i sutta d’a terra‘u hjiumi
‘i bbandugnu c’arma ‘u pugnu è pathri
e porta ‘i figghji int’è caverni!
Non cchjiù ‘i zàgari l'arria
fici hjiarvu stu sammartinu
ma du sangu feroci nte costati.
Nu spruzzu di purvari affuca
‘u rispiru ‘i ‘na terra chi sgrava
serpi e gersumini du stessu sputu.
Nuju u si permetti u jetta
falacchi a mindi futtu o u mu si ccitti.
Sta storria ‘i curpevoli orbitudini
ndi mosthra ‘a virgogna, armenu
e u jetta na zavorra nta ll’orrori.
CARO PROF
E’ come un polpo sbattuto
sugli scogli questa brezza
gelida che schiaffeggia le ossa.
Sorge in profondità il fiume
d’abbandono che arma il pugno ai padri
e trascina i figli alle caverne!
Non più di zagare l'aria
ha profumato quest’autunno
ma del sangue feroce sul costato.
Una raffica di polvere soffoca
il respiro di una terra che figlia
serpi e gelsomini dallo stesso sputo.
Nessuno si permetta di scagliare
fango a caso o di tacere.
Questa storia di colpevole
cecità ci indichi il pudore, almeno
e getti una zavorra nell’orrore.
3ª Classificata Panetta Alfredo - Settimo Milanese Lombardia Vernacolo calabrese zona Locride
MUNTAGNI
Mamma mia chi muntagna!
Mi dissaru nzina ca jà fora
ncesti una cchjiù rrandi
quasi sfiora ‘u cielu, e doppu
jendu pe’ ssussu a decini
e decini, jungiuti a catina.
Pàrinu statui gihanti
mentuti a guardia ‘n n’isola.
Nuji nci menti manu
nuju nci potu thrasiri.
E inta a ogni muntagna, quanti voschi!
Cu faghi a sfiorari ‘i nivulati
castagneti, carpini, ilici
chjianti ‘i farmaci e arburi ‘i frutta
chi spamarrianu na città.
E dinta a ogni arburu
pujija ‘a vita, cu vejissi
chi fannu ‘a folia
formichi gentili e traficanti
comu schjiavi d’Egittu.
E sup’a corteccia
muschjii e licheni cu suli
linchji ‘i lucia. E dinta
‘a lucia forzi nc’è Ddiu
chi joca c'a materria
facendu du nenti ogni cosa.
MONTAGNE
Mamma mia che montagna!
E più in là, m’hanno detto
c’è n’è una più grande
quasi a sfiorare il cielo, poi
proseguendo a Nord, decine
e decine, legate a catena.
Sembrano statue giganti
messe a guardia di un’isola
possenti, impenetrabili.
E dentro ogni montagna, quanti boschi!
Con faggeti a carezzare le nuvole
castagneti, carpini, lecci
piante medicinali, alberi da frutta
che sfamerebbero una metropoli.
E dentro ogni albero
pullula la vita, con vespe
che ci fanno casa
formiche gentili e ubbidienti
come schiavi d’Egitto.
E sulla corteccia
muschi e licheni che il sole
sublima di luce. E dentro
la luce forse c’è Dio
che gioca con la materia
ricavando dal nulla ogni cosa.